Introduzione
Se il piano non è più regolatore* (testo provvisorio)
di Piero Properzi
Nell’apertura di UI 185 Paolo Avarello propone una riflessione sulla “urbanistica del fare”, laica, orientata a risolvere problemi ricorrenti ma sempre diversi, piuttosto che a declinare principi astratti. L’articolo pone alcune questioni di fondo, sul cui mi sembra opportuno riprendere il dibattito anche in vista del Congresso. Il piano non è più “regolatore”, ma allora cos’è? Gli enti utilizzano nuovi strumenti e, soprattutto, praticano nuovi comportamenti; il loro ruolo va progressivamente modificandosi in una logica di crescente de-istituzionalizzazione. La stessa idea di sviluppo, oscillante tra localismi, spesso declinati in termini egoistici, e un globalismo percepito solo al negativo, non consente di comprendere bene a cosa debba servire la nuova pianificazione.
Quando l’idea di sviluppo era collegata alla “modernizzazione” (industria, infrastrutture, consumi) – o almeno lo sembrava – il piano svolgeva più o meno efficacemente il suo ruolo “regolatore”: dimensionamenti, indici, standard “regolavano” l’uso del territorio, ma anche il ciclo edilizio, e inserivano nel ciclo produttivo una parte dell’enorme riserva finanziaria costituita dal risparmio privato. Su come questo sia avvenuto le letture sono diverse: da un lato sottolineano i ritardi del settore delle costruzioni e l’incompletezza delle armature urbane; dall’altro la natura ridistribuiva e di sostegno al volano economico svolta dai piani in molte realtà marginali.
Da questa interpretazione è derivata, soprattutto al sud, l’enfatizzazione del piano come induttore di sviluppo, anche se le prospettive di sviluppo dipendevano necessariamente da interventi esterni: trasferimenti dallo Stato o investimenti sostenuti da agevolazioni e/o contrattazioni a scala nazionale; uno sviluppo per così dire “dato”, nella duplice senso di conosciuto/predefinito e di concesso/elargito. Il piano veniva comunque riguardato come “induttore” di sviluppo, collegandolo anche alla sua funzione originaria, legata alla produzione di beni pubblici, spesso coincidenti con opere pubbliche; anche se esso si limitava a regolare spazialmente rapporti domanda-offerta in qualche modo predefiniti: industrie ed edilizia pubblica “dovevano” esserci, e il piano ne garantiva localizzazioni “razionali” (in senso omogeneo al binomio sviluppo/modernizzazione).
Tutto ciò ha funzionato finché c’è stata una domanda alta e ridistribuzione di risorse dal centro, da cui il piano ha derivato il “falso” ruolo di induttore di sviluppo, per altro in massima parte settoriale (edilizia residenziale), che tuttavia in molte realtà urbane ha costituito il perno di un ampio meccanismo che coniugava risparmio, valorizzazione fondiaria e ridistribuzione. Paradossalmente questo ruolo non si concretizzava tanto in termini di offerta di aree e scenari di sviluppo – spesso incerti proprio perché totalizzanti e generici (riequilibrio, policentrismo, equa ridistribuzione), quanto nella capacità di attenuare le accelerazioni del ciclo edilizio non funzionali all’offerta. In questo senso il piano diveniva produttore/regolatore di rendite, imponendo un contingentamento che frenava la speculazione selvaggia, ma spingeva anche il mercato edilizio verso il basso (bassa qualità del prodotto, controllo dell’offerta), garantendo però la continuità di riproduzione della domanda con l’urbanizzazione “imperfetta” delle periferie e il “blocco” dei centri storici.
Si trattava in questo senso di un vero piano “regolatore”, le cui dimensioni previsive, in genere sovradimensionate, trovavano i loro meccanismi attuativi in indici, standard, e nella domanda più o meno controllata dal ciclo edilizio. A questo tipo di piano era necessaria la lentezza e la complessità dei processi attuativi/autoritativi: lentezza propria del ciclo edilizio e complessità legata al sistema di garanzie necessario a giustificare gli espropri e i relativi vincoli.
II venir meno di questo modello ha aperto orizzonti in gran parte inediti; il piano senza sviluppo (edilizio) da regolare, ma anche lo sviluppo (sostenibile) non derivato solo dalle trasformazioni regolate dal piano: affermazioni volutamente radicali, per cercare di chiarire i profili di un cambiamento che forse non presenta caratteri così decisi (dopo anni di disinteresse della disciplina occorre infatti reinterpretare la nuova struttura del ciclo edilizio), ma che concorre a definire il quadro nel quale riconsiderare il senso della pianificazione.
Lo sviluppo non coincide più con il ciclo edilizio, o solo con quello, ma soprattutto non ha più alcun nesso diretto – se mai ne ha avuti – con i caratteri più tradizionali del piano: la previsione localizzativa e la regolazione normativa. Il piano deve quindi ricollocarsi rispetto a un modello di sviluppo marcato dal globalismo della produzione e dal localismo delle iniziative, sicuramente meno legato alla dimensione territoriale, e ancor meno a quella fondiaria.
Molto del dibattito recente è incentrato su questo aspetto, ma ne ha declinato modalità formali piuttosto che contenuti; e quando ha affrontato questi ultimi, si è attestato su posizioni “ideologiche”, o su quello che ne resta. Il piano come momento di garanzia rispetto alle trasformazioni (teoria della giustizia) versus un piano come semplice trama connettiva (ricompositiva) di progetti di sviluppo locale (teoria del benessere). Da un lato una concezione ancora “neocontrattuale”, che richiede regole condivise (spesso solo in chiave ideologica), poste a filtro di scelte riferite a forme di razionalità comprensiva; dall’altro lato una concezione “utilitarista”, che parte dall’individuazione di obiettivi (anche parziali), che rispondono solo genericamente a prospettive di sviluppo, e sono perseguiti senza il filtro di regole di equità, secondo percorsi di razionalità parziale.
Anche la posizione “liberista” – oggi di moda nelle accelerazioni verso obiettivi – presuppone una concezione di pubblico interesse, data e non verificata, che coincide con la volontà di governo della “maggioranza”, e che quindi corrisponde a una idea astratta di interesse pubblico, propria di concezioni centraliste (consenso dominato); mentre quella “neo riformista” la costruisce faticosamente dal basso, attraverso la dialettica e la concertazione, più coerente a una idea “liberale” del mercato (consenso condiviso). Queste due posizioni, sostanzialmente deboli nella loro tradizione, non sono per altro così distinte, e spesso si contaminano reciprocamente, superando una contrapposizione storica che probabilmente ha fatto il suo tempo, e comunque non può più essere usata per tipizzare piani “buoni” e piani “cattivi”.
Il venir meno del modello di sviluppo comporta però una duplice difficoltà, non ancora affrontata in termini disciplinari.
La costruzione dei processi di sviluppo dal basso, e il loro coincidere con nuove dimensioni del pubblico interesse, aprono infatti da un lato campi inediti, in cui concorsualità/concorrenza dei privati, e crescente importanza della gestioni di reti e servizi, in una logica di prestazioni minime e di welfare market, delimitano i confini; dall’altro l’inadeguatezza dell’armature urbane e territoriali, l’enorme dimensione di spesa necessaria ad adeguarle, l’assenza di politiche di sostegno centrali (ma spesso anche regionali), rimettono in discussione il localismo e i suoi processi di sviluppo, che si rappresentano in una dimensione di cronica incompiutezza.
Il piano deve essere di ciò consapevole, e proporsi da un lato come strumento di costruzione, verifica e concertazione dei diversi progetti di sviluppo interagenti: competitivi, ma spesso anche conflittuali, e non sempre “sostenibili”; dall’altro come raccordo di capacità di spesa e di investimento. Un sistema di coerenze e compatibilità parziali ma convergenti, reti di intenzionalità cooperative orientate a costruire senso nei progetti di sviluppo locali, che proprio nelle armature urbane individuano il loro punto di forza.
È evidente che aprendo la costruzione del pubblico interesse a logiche valutative e argomentative si devono potenziare in parallelo i caratteri di “responsabilità” e “democraticità” delle scelte: un percorso opposto a quello prefigurato dai provvedimenti semplificativi della Bassanini, che concentrano le decisioni – sottraendole alle assemblee elettive – risolvendole spesso in alternativa ai piani (Dia, sportello unico, etc.), di cui negano così l’utilità (pubblica). In questo senso il piano deve recuperare in termini “disvelativi” ciò che perde sul fronte delle garanzie procedimentali (approvazione gerarchica), attivando momenti di verifica nel processo formativo, ponendo gli interessi in condizioni (reciprocamente) concorsuali. E tutte le decisioni devono impegnare responsabilmente proponenti e decisori, in una logica di democrazia sostanziale.
Nello scenario di de-istituzionalizzazione – ben descritto da De Rita nel recente “Il regno inerme” – e in quello di de-industrializzazione che si conclude ingloriosamente a Termini Imprese, sono infatti proprio i nuovi processi di pianificazione, consapevoli della debolezza del quadro istituzionale e dell’incertezza dei progetti di sviluppo locali, che possono ricostruire nuove forme di istituzione. Alcuni chiamano questo “nuovo” pubblico interesse, altri lo declinano in termini di pura deregolazione, in nome di un’efficienza procedurale che non sempre corrisponde a efficacia di risultati. Sembra allora opportuno indagare come viene interpretato tutto ciò dalle Regioni, che in termini più ampi e diretti sono chiamate a ridefinire ruoli e strategie rispetto ai temi del governo del territorio, non in una devolution senza rete, ma con la vera interpretazione del federalismo rivendicata da sempre dai riformisti.
Mentre, paradossalmente, una parte della stessa sinistra riformista sta rinunciando alla concertazione come metodo di governo, nelle più recenti leggi regionali le nuove modalità di pianificazione, derivate in gran parte dalla stagione dei programmi complessi, stanno trovando una progressiva definizione, e mettendo a fuoco alcuni caratteri, di cui anche la (prossima?) legge statale dovrà tener conto: il carattere parziale e specialistico degli obiettivi e quello paritario dei soggetti; il carattere valutativo e concertativo delle decisioni; il carattere pattizio dei rapporti tra soggetti.
Con il venir meno della dimensione unitaria del Prg (previsiva del pubblico interesse e regolativa del regime dei suoli) gli strumenti non costituiscono più fondamento di certezza giuridica. La loro natura è più decisamente orientata a scopi specifici, particolari, settoriali, pragmaticamente misurabili; essi si diversificano in relazione agli obiettivi, riacquistano la natura originaria nel definire la dimensione del pubblico interesse; e in contrasto alla omogeneizzazione dei comportamenti, ciò avviene entro pratiche concertative, che da una fase ritualistica vanno semprepiù riempiendosi di contenuti, e che paradossalmente “ridanno forma” al piano.
Le conferenze di pianificazione richiedono protocolli di valutazione; valutazioni di coerenza, quindi possibilità di mettere a confronto i diversi elementi (strutturali, operativi, strategici), e valutazione di compatibilità, quindi quadri conoscitivi unitari. Gli accordi stanno uscendo dalla dimensione retorica per sostanziarsi di risorse, impegni attuativi, responsabilità di controllo. I privati tendono a guardare agli accordi non solo come “accelerazione” (non si capisce più rispetto a cosa), ma come complesso di condizioni che garantiscano la realizzazione della parte pubblica, e possano aprire all’operatività. Ma se questi sono i punti fermi della nuova urbanistica, che ha abbandonato la dimensione prescrittiva, occorre affrontare alcuni problemi ancora aperti. Cambiano natura e forma degli strumenti, e questo sta in parte avvenendo nelle nuove leggi regionali, ma restano – e preoccupano – i grandi spazi vuoti lasciati dalla costruzione dal basso. La “urbanistica del fare” non è forse sufficiente: il governo del territorio comporta responsabilità da parte di tutti i nuovi soggetti. Questa “nuova” pianificazione, ma soprattutto la sua utilità, necessitano forse di una definizione in sede di legge statale (nessuno dei ddl presentati, né le “linee guida” di Forza Italia affrontano il problema).
Descrivere quadri credibili e coerenti, formare conoscenze cooperative e plurali, definire modalità di co-pianificazione e concertazione non solo retoriche, trasformare strategie “leggere” in progetti territoriali e urbani, fa parte della responsabilità (non solo delle competenze) delle Regioni, ancor prima che progettare arroccamenti sanitari o linguistici protetti da polizie locali. Non basta sperimentare. Si tratta forse di ripensare anche alcuni nodi disciplinari, con prospettive più lunghe dei tempi di legislatura, e più brevi del millenarismo ecologico, senza l’affanno della politica incombente, e senza rassegnarsi al catastrofismo: in una logica seriamente riformista.
* articolo pubblicato su Urbanistica Informazioni n. 186/2002.